di Gaetano Prencipe

Per quelli di noi che hanno più di cinquant’anni non credo sia possibile avere una memoria condivisa di ciò che è successo a Manfredonia dall’apertura dello stabilimento petrolchimico alla sua chiusura fino ad oggi. Si può forse provare a costruire un racconto comune, che tenga dentro anche voci e versioni non necessariamente conciliabili. Per farlo, c’è però bisogno di una diversa capacità di confronto, anche serrato, nella comune condivisione della responsabilità che a diverso titolo portiamo nei confronti delle nuove generazioni”.

E’ quello che scrivevo nel settembre del 2016, in occasione dei quarant’anni dal grave incidente accaduto nel 1976 nello Stabilimento ENICHEM di Macchia- Monte Sant’Angelo.

Ed è quello che ha cercato di fare Massimiliano Mazzotta, il regista del docu-film “ARSENICHEM – La catastrofe continuata”, proiettato in piazza del Popolo sabato 21 aprile.

Vi è alla base un paziente e prezioso lavoro di recupero e di selezione della gran mole di documenti, fotografie, video, interviste dell’epoca …, in parte riproposti attraverso la lente dei ricordi personali, che a volte però ingigantiscono, altre volte rimpiccioliscono e in alcuni casi non mettono a fuoco o lasciano fuori dal campo visivo punti anche nodali della vicenda.

Il documentario dura 74 minuti ed ha il pregio di aver dato la parola a tante persone che hanno svolto un ruolo significativo in quelle vicende, senza alcuna voce fuori campo.

Sono quindi i pescatori a raccontare del settembre 1988, quando scesero in piazza per opporsi all’attracco al porto industriale di Manfredonia della Deep Sea Carrier, la famigerata nave dei veleni. E non mostrano alcun timore nel confessare che, dopo aver abbattuto e dato fuoco al portone di ingresso del palazzo comunale e messo a soqquadro alcuni uffici, avrebbero strozzato con le loro mani sindaco ed assessori se questi non fossero riusciti a calarsi da una finestra ed a fuggire rocambolescamente da un’uscita di fortuna.

Fu il momento in cui i pescatori tirarono fuori tutta la rabbia accumulata nell’aver visto per anni il mare del golfo, unica fonte del loro lavoro, brutalizzato dai continui scarichi di sostanze tossiche provenienti dallo stabilimento.

Allo stesso modo, sono le donne a raccontare come, nello stesso periodo, siano divenute il simbolo di quella lotta per la difesa della salute e dell’ambiente, da loro portata nel 1988 anche dinanzi alla Commissione Europea per i diritti dell’uomo (con un ricorso però scritto e patrocinato inizialmente da me e non da altri), che avviò un procedimento conclusosi nel 1998 con una sentenza della Corte di Giustizia Europea per i diritti dell’uomo di parziale accoglimento (e con un risarcimento, di cui poco si dice, di dieci milioni di lire per ciascuna delle 40 donne firmatarie).

Significativa è anche la testimonianza di un ex dipendente del petrolchimico (allora tra i “quadri aziendali”, autori di diversi documenti a difesa dello stabilimento), così come lo è quella del Sindaco in carica in quel periodo, fino all’assalto del palazzo comunale, che ha capeggiato con la sua amministrazione sia il corteo contro il provvedimento del Pretore di Otranto Cillo, che aveva bloccato lo sversamento in mare dei reflui della produzione di caprolattame, i cosiddetti “sali sodici”, sia quello contro l’attracco al porto industriale della Deep Sea Carrier, la famigerata nave dei veleni.

Ne emerge un racconto corale, che in parte ricostruisce il clima di tensione e di lacerazione vissuto in quegli anni e che ruota intorno a due verità di fondo, che oggi nessuno pare metta più in più dubbio. La prima, è che l’insediamento del petrolchimico nella piana di Macchia ha rappresentato una sciagura per questo territorio, sotto l’aspetto ambientale, sanitario, economico e sociale. La seconda, è che in quella fabbrica si utilizzavano sostanze tossiche in grado non solo di inquinare gravemente l’ambiente circostante (aria, acqua, suolo e sottosuolo) ma anche di colpire a morte chi vi lavorava, come purtroppo è avvenuto.

Una verità, quest’ultima, per nulla scalfita dalle sentenze che hanno assolto i dirigenti e due consulenti dell’azienda, perché emesse all’esito di un processo penale che forse aveva il limite di voler a tutti i costi legare le morti (19 all’inizio del processo) e le gravi malattie, che hanno colpito gli operai dello stabilimento e delle aziende appaltatrici, all’evento del 1976, ossia ad un solo episodio e non ad una sistematica fuoriuscita o comunque all’uso di quelle sostanze durante tutta l’attività produttiva (e non solo nei sei anni successivi a quell’incidente). Il processo si è infatti celebrato a carico di chi aveva deciso e/o gestito le modalità di bonifica conseguenti allo scoppio della torre di lavaggio dei fumi dell’impianto di sintesi dell’ammoniaca, per aver adottato, nelle prime fasi e nei sei anni successivi, sistemi inadeguati a proteggere la salute di quanti all’interno dello stabilimento furono esposti a contatto con i composti di arsenico che fuoriuscirono a tonnellate.

Un processo iniziato a seguito dell’indagine penale scaturita dalla denuncia fatta nel 1996 dall’operaio Nicola Lovecchio (poi deceduto nell’aprile del 1997), e sostenuta dal dott. Maurizio Portaluri, l’oncologo che lo aveva in cura, e da Medicina Democratica (che ha anche contribuito a finanziare il docu-film).

Eppure già nell’ottobre del 1985 una sentenza del Giudice del Lavoro del Tribunale di Foggia, confermata in appello, aveva accertato che un operaio, Giovanni Pastore, nel 1983 era morto a seguito di una malattia cronico-degenerativa collegata all’attività svolta nello stabilimento. Una morte scomoda, che nessuno, finché la fabbrica ha funzionato, aveva però interesse a considerare come una morte a causa del lavoro, né l’azienda, né i sindacati, né tantomeno i dipendenti, quadri e operai, che per difendere il loro posto di lavoro hanno difeso la fabbrica a tutti i costi, fino alla sua chiusura.

Nel docu-film di Pastore ne parla Franco Carella, allora medico del lavoro e perito di parte in quel processo, in uno spezzone di intervista che dura solo qualche secondo, e ne fa cenno anche l’ex dipendente dell’azienda, solo oggi disposto ad ammettere pubblicamente che quella è stata la prima morte dovuta alle sostanze usate nello stabilimento (per lui alla formaldeide più che all’arsenico).

Se allora si fosse dato ascolto a quel campanello d’allarme … chissà, probabilmente gli operai sarebbero stati i primi a chiedere all’azienda di eliminare dal ciclo produttivo alcune sostanze tossiche ed altre ad alto rischio di incendio.

Ed invece a farlo furono solo i pochi esponenti manfredoniani delle associazioni ambientaliste (WWF, LIPU e Legambiente), che dai primi anni ’80, nel silenzio generale, ingaggiarono una lunga e serrata battaglia contro l’azienda per la tutela dell’ambiente e della salute ed all’insegna della legalità: con raccolta di dati tecnico-scientifici, elaborazione di documenti, dossier e denunce penali, ed anche sostenendo le indagini ed i provvedimenti dei Pretori di Monte Sant’Angelo, di Otranto e di Manfredonia.

Nel docu-film non vi è quasi traccia di questa fase e dei suoi protagonisti, avendo il regista posto l’accento soprattutto sulla fase successiva, quella iniziata a seguito del minacciato attracco della nave dei veleni, che ha indubbiamente segnato una svolta decisiva: al fianco degli ambientalisti scesero in campo i pescatori e gran parte della popolazione, e si costituì un Comitato cittadino che riuniva tutti, associazioni e singoli cittadini. Fu allora che la vicenda assunse le forme e la dimensione di una lotta popolare, che senza mezzi termini si diede come obiettivo la completa chiusura dello stabilimento.

Allora, perché e quando la fabbrica è stata chiusa? Si è chiesto qualcuno nei giorni successivi alla proiezione del film, ponendo la domanda sul sito internet più letto in città, senza ricevere risposta.

In effetti il film non lo dice. Nel 1989 fu istituita una Commissione tecnico-scientifica, che dettò numerose e rigide condizioni per rendere compatibile lo stabilimento con l’ambiente e la salute dei lavoratori e dei cittadini, con costi che l’Azienda avrebbe dovuto sostenere in un contesto diventato ormai ostile. Nel frattempo, però, l’impossibilità, a partire dal 1987, di smaltire in mare i reflui della produzione del caprolattame e la mancanza di soluzioni alternative (benché da anni annunciate dall’azienda) comportò prima l’ interruzione di quella linea produttiva e nel 1991 la sua definitiva chiusura. Nel 1993, l’Azienda cessò anche le altre produzioni e si aprì lo spettro della disoccupazione per le diverse centinaia di lavoratori occupati dalle ditte appaltatrici e dell’indotto, rimasti senza tutela, e per i circa mille dipendenti dello stabilimento (per i quali iniziò una lunga trattativa sindacale, terminata alcuni anni dopo, con il coinvolgimento diretto delle istituzioni locali oltre che del Ministero del Lavoro e dell’Azienda).

Solo alcuni anni dopo si seppe di un provvedimento della Commissione Europea del 1993 nel quale, a chiusura di una procedura di infrazione per aiuti di Stato non autorizzati, si dava atto che l’Enichem aveva deciso di chiudere definitivamente lo stabilimento di Manfredonia e si obbligava anche a non vendere gli impianti ad altre aziende della Comunità Europea, per evitare che quelle produzioni potessero riprendere nell’ambito dello stesso mercato. Lo scoprimmo solo nel 1997, quando l’Amministrazione comunale e le forze politiche di maggioranza (di centrosinistra) si opposero fermamente alla riapertura dello stabilimento da parte di una società americana, la Probandt, fortemente sostenuta dalla Regione Puglia (allora retta da un governo di centrodestra), e da quasi tutte le forze produttive e sindacali di Manfredonia, oltre che dai partiti all’opposizione (anche questa una pagina che in molti preferiscono rimuovere, sebbene a ricordarlo vi siano documenti sottoscritti e resi pubblici). Solo le prospettive allora offerte dal Contratto d’Area e la ferma convinzione che la città avesse la possibilità oltre al diritto di costruire un proprio futuro non più dipendente dalle sorti dello stabilimento petrolchimico consentì di resistere alle sirene del ritorno al passato (suonate anche in precedenza con le proposte di acquisto pervenute da altre due società, la Puglia Nylon e la Carbochimica).

Oggi non vi è più traccia degli impianti e delle 32 ciminiere che ogni giorno insieme al vapore sbuffavano all’interno dello stabilimento e tutt’intorno sostanze inquinanti. Resta ancora grave l’inquinamento del sottosuolo e della falda acquifera, per il quale il modello di bonifica sperimentato non ha dato i risultati attesi.

Nel frattempo la città ha cambiato volto, grazie anche alla realizzazione di opere che ne hanno moltiplicato le potenzialità turistiche: il restauro e il riutilizzo di numerosi palazzi storici (Palazzo dei Celestini, con la realizzazione della biblioteca e dell’auditorium; palazzo San Domenico, con la riapertura dell’intero chiostro alla fruizione della città; Palazzo Seminario; l’ex Ospedale Orsini); l’istituzione dell’Oasi Lago Salso e il suo inserimento nel Parco del Gargano; il rifacimento di corso Manfredi, dei due lungomare, fino a Siponto, e di piazzale Diomede; il nuovo mercato ittico; il nuovo porto turistico; il nuovo sviluppo urbanistico, faticoso e lento ma progressivo; … per finire, grazie al MIBAC, con gli Ipogei Capparelli; le c.d. basiliche di Siponto, con la straordinaria opera di Tresoldi; l’Abbazia di san Leonardo ed il Castello, con lavori ancora in corso.

La telecamera di Mazzotta però mantiene lo sguardo stretto sulla “catastrofe” e sui suoi effetti.

Nel racconto prevalgono i toni dolenti, comprensibili in chi ha perso gli affetti più cari, meno in chi ha voluto a tutti i costi offrire al regista una visione intrisa di sfiducia ed indifferente a quanto di buono si è riusciti a fare negli anni successivi alla chiusura dello stabilimento, pur tra mille difficoltà, conflitti, limiti e contraddizioni.

In ogni caso, va accolta e sostenuta la proposta, avanzata dal Coordinamento delle associazioni ancora impegnate sul tema, di realizzare un centro di documentazione e un osservatorio permanente sulla salute dei cittadini e degli ex lavoratori (molti dei quali residenti altrove), che abbiano sede in un luogo fisico, un immobile, che si vorrebbe chiamare “Casa della memoria”.

Propongo invece che trovino sede presso la biblioteca comunale, perché non si dà memoria al di fuori dei sistemi utilizzati dalle comunità per ordinare e ritrovare i propri ricordi (come sostiene Paul Ricoeur in “La memoria, la storia, l’oblio”, riprendendo il pensiero di Janckelevitch). La biblioteca è di per sé il luogo della memoria pubblica della comunità cittadina di appartenenza, punto di incontro e di scambio tra la memoria individuale e quella collettiva.

Una memoria intesa però come forza attiva, viva, di cui va rivendicata la dimensione etica e civile, con l’impegno di tutti a formulare una promessa di fedeltà e di verità (è sempre Ricoeur a suggerirlo), da rinnovare continuamente, dinanzi al pericolo dell’oblio, cui tutti siamo esposti, come a quello della frammentarietà e casualità dei ricordi o, peggio ancora, della loro falsificazione.

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