di Domenico di Iasio

Il 24 novembre la Commissione europea ha presentato un piano d’azione per l’integrazione e l’inclusione dei migranti regolari che, avverte Giovanni Maria Del Re su «Avvenire» del 25 novembre, sono 34 milioni, l’8% della popolazione. E questo stesso cronista riporta la motivazione teorico-politica del Commissario agli Affari interni della UE, Ylva Johansson, che testualmente afferma: «L’integrazione e l’inclusione sono un investimento» e «uno dei peggiori errori è sottovalutare la forza, le qualità, l’energia che hanno tanti migranti. Ne abbiamo bisogno, siamo una società che invecchia».

Insomma, che dire? Se i migranti regolari fossero tutti inclusi e integrati, con un lavoro, una famiglia, una casa e la conoscenza della lingua del paese ospitante, sarebbe già un grosso passo verso il progresso, auspicabile. Tuttavia, siccome diamo importanza alla responsabilità teorica che in genere non si considera mai, qui dobbiamo fare una precisazione.

Mi viene in mente il dibattito in Europa, soprattutto in Francia e in Inghilterra, sulla schiavitù nella fase post-colombiana. Gli schiavi, dicevano i giustificazionisti, sono utili all’economia per cui è preferibile, non solo utilizzarli nelle colonie, ma ospitarli anche in Europa. Non erano sussunti sotto la categoria di “uomo” o di “donna”, sotto la categoria di “umano”,  ma apprezzati  unicamente come merce di scambio:  offrono la loro manodopera per la quale c’è una ricompensa. Si ripropone, a mio avviso, tale e quale questo dibattito su cui, ovviamente, in questa sede non è opportuno intervenire in dettaglio. Solo un piccolo riferimento ad un autore francese, Condorcet, che si opponeva al concetto stesso di schiavitù considerata un «oltraggio ai diritti dell’umanità». Certo, oggi formalmente la schiavitù non esiste più, ma la condizione dello schiavo, a nostro avviso, continua a sussistere nella figura del “migrante”.

C’è un libro, molto interessante in proposito, che qui vogliamo citare, premio internazionale Viareggio-Versilia nel 2000, di Kevin Bales, dal titolo emblematico “I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale”. Se, per un attimo, estendiamo lo sguardo ai percorsi che questi cosiddetti “migranti regolari” hanno compiuto attraverso il deserto e il Mediterraneo, ci rendiamo perfettamente conto della loro condizione di subordinazione sociale totale e di gravissimo rischio in cui versa la loro misera esistenza.  Non esiste una statistica sui decessi di questi “ migranti” nei loro percorsi attraverso il deserto e il Mediterraneo, sui naufragi continui che si consumano nell’indifferenza generale dell’Europa. “Migranti” che sono donne, anche incinte, bambine e bambini, uomini disperati alla ricerca di qualche porto sicuro, che il più delle volte soccombono in naufragi terribili di cui l’Europa parla poco o non parla affatto. La Commissione europea, lo auspichiamo, qualche volta discuta e decida di istituire un corridoio umanitario, per questi disperati, per questi “nuovi schiavi”.

C’è un altro libro, di cui ovviamente si parla poco, ed è di Karl Jaspers, Sulla questione della colpa, un corso estivo di lezioni che questo filosofo tenne all’Università di Heidelberg nel 1946, quando il comando americano gli restituì la cattedra che i nazisti gli avevano arbitrariamente sottratto. Parla delle colpe, in particolare della “colpa metafisica” che, scrive Jaspers, «investe qualsiasi uomo che tollera ingiustizie e malvagità che possono essere inflitte a un proprio simile e non fa nulla per impedirlo». Si riferisce, il filosofo, ai campi di sterminio nazisti, all’olocausto consumato in quei campi. In quella tragica occasione i tedeschi in genere non parlarono.

Non vorrei che anche oggi, tacendo, l’Europa, rispetto alla questione dei “migranti”, incorra in questa grave colpa che incombe, come spada di Damocle, sulla testa di tutti noi, in particolare di quelli che tacciono sui naufragi che, probabilmente, si stanno consumando anche ora, nel momento in cui scriviamo.

Domenico di Iasio

domenico.diiasio@unifg.it

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