di Gaetano Prencipe

Le parole hanno una loro storia, con significati che spesso cambiano nel tempo ed a seconda del contesto nel quale vengono usate.

Specie in politica, ogni partito o movimento tende a forgiare un proprio linguaggio utilizzando parole in grado di meglio esprimere e costruire la propria identità e il proprio universo simbolico, prima ancora e forse più della proposta politica da elaborare e proporre.

Pensiamo a parole come “patria”, “popolo”, “nazione”, “sovranità”, “cittadinanza”, “libertà”, “giustizia”,  “democrazia”, “laicità”, per citarne solo alcune, spesso usate come monete che ormai hanno perso la loro effige ed il loro valore reale, altre volte come monete da collezione, utili da ostentare quando serve.

Quando è nato il Partito Democratico, come ultimo segretario provinciale di una delle due forze politiche che l’hanno costituito, La Margherita, ho girato in lungo e in largo i tanti paesi della provincia di Foggia per promuovere le assemblee unitarie, portando sempre con me un quadernetto  su cui appuntavo di volta in volta le parole più usate da chi interveniva nel dibattito (dopo l’immancabile siparietto iniziale, nel quale non si sapeva se chiamarsi amici o compagni). Persone di tutte le età e di ogni ceto sociale.

Lo stesso ho fatto durante le tante assemblee nazionali cui ho partecipato ed anche durante i lavori della commissione che ha elaborato il Codice Etico, presieduta da Sergio Mattarella.

Speravo di scriverci sopra un libro, ma l’ha fatto prima di me Marco Meacci, “Partito Democratico – Le parole chiave”, edito da Editori Riuniti, con la prefazione del compianto Pietro Scoppola, affidando però ad intellettuali di area e ad esponenti di punta del nascente partito il compito di definire ognuno una parola simbolo.

Ebbene, sia tra le parole usate nelle assemblee come in quelle riportate da Meacci  non c’è traccia della parola “comunità”, che invece, da un anno a questa parte,  mi capita di sentire con sempre maggiore frequenza, prima solo nelle comunicazioni informali e poi, un po’ alla volta, anche in quelle ufficiali.

La mia sensibilità all’uso di questa parola è di tipo culturale e pedagogico (complice la mia formazione negli scout) ed è resa evidente anche dal nome del sito www.comunitaeterritorio.it e dell’omonima associazione che all’inizio dell’anno ho costituito insieme ad un gruppo di persone molto più giovani di me.  In politica, però,  ho sempre preferito usarla nell’accezione ristretta di “comunità locale”.

Non resto quindi indifferente quando la sento di frequente usare nelle riunioni di partito per far riferimento alle persone che compongono i vari organismi direttivi, locali e provinciali.

Dirsi e a sentirsicomunità politicaè sicuramente una novità per un partito inizialmente costituito e composto da persone con una diversa storia politica, caratterizzata da universi simbolici assai differenti e distanti, piuttosto dimenticati ma mai amalgamati e ancor meno condivisi.

E lo è ancor di più l’uso di questa parola per rivolgersi all’esterno, indicando una comunità immaginaria, di carattere identitario, verso cui sollecitare il senso di appartenenza ed alla quale rivolgere la propria proposta politica (interessante sul tema, “Comunità immaginate”, un vecchio libro di Benedict Anderson, appena pubblicato in Italia dagli Editori Laterza).

E’ proprio quello che ha fatto giorni fa il segretario reggente Maurizio Martina   in alcune interviste televisive e, soprattutto, a più riprese,  in una lettera pubblicata dal quotidiano  La Repubblica lo scorso 4 aprile. “Abbiamo bisogno di organizzare una nuova risposta ai bisogni di protezione dei cittadini – scrive Martina-. L’alternativa all’individualismo e alla chiusura torna ad essere la comunità … un nuovo contratto sociale capace di proteggere e promuovere. In grado di riconoscere il “valore condiviso”, il mutualismo ed i cittadini come protagonisti attivi e non solo come consumatori (anche delle istituzioni e della politica). (…) Rimettere al centro la giustizia sociale, rispondere ai bisogni con un’idea forte di comunità , dare forma a nuovi diritti ma anche a nuovi doveri e responsabilità”.

Sarà un caso, ma qualche giorno dopo, sempre su Repubblica, inserendosi nel dibattito aperto dal Direttore del quotidiano sul futuro del PD, Francesco Ronchi, studioso e consulente politico del gruppo Socialista e Democratico al Parlamento europeo, torna sul concetto di “comunità” e, facendo riferimento al titolo di un’opera del sociologo Zygmunt Bauman, sostiene che la questione sociale che la sinistra deve assolutamente affrontare è la “solitudine dei cittadini”, il loro stato di  smarrimento e di insicurezza di fronte ai cambiamenti globali e alle paure connesse ai fenomeni migratori, perché costituiscono il brodo di coltura dei populismi. Per Ronchi, “Una delle ragioni della vittoria della lega e, in parte dei Cinque Stelle, è stata proprio nella loro capacità di proporre idee astratte di comunità che hanno sedotto milioni di uomini disorientati. Votando Lega ci si è identificati in una fittizia comunità etnica italiana distinta dagli “immigrati”.  Il voto di Cinque Stelle suggerisce invece l’appartenenza alla comunità dei “cittadini” contrapposta ad una presunta casta”.

Pertanto, visto che le elezioni del 4 marzo hanno marcato anche in Italia l’avvento della “politica dell’identità”, ossia l’identificazione a specifiche comunità culturali (l’etnia, per la Lega, e il popolo, per i Cinque Stelle), si chiede e chiede: “Qual è la visione di comunità della sinistra italiana?  E’ possibile formulare una politica dell’identità di sinistra?”.

Il tema è importante e, in maniera apparentemente inconsapevole, intercetta un dibattito filosofico durato alcuni decenni, almeno a partire dalla pubblicazione nel 1971 dell’opera fondamentale di John Rawls, Teoria della giustizia, che si farebbe sicuramente bene a recuperare e a mettere a frutto.

paul-klee | Comunita e territorioIl rischio, altrimenti, è quello di dare risposte generiche ed inadeguate a domande serie, come a mio modesto avviso fa Ronchi quando, con lo sguardo rivolto al passato  (come l’”angelo della storia” di cui parla Walter Benjamin commentando un disegno di Paul Klee), propone di cercare la risposta nella storia della sinistra e nel suo stesso codice genetico, declinando al futuro concetti come “cooperazione, mutualismo, Case del Popolo, municipalismo dei primi socialisti, la politica come socialità dal basso, un senso di comunità legato ai luoghi vivi”.

In realtà, lo stesso Bauman, che si dichiarava socialista e liberale, in più occasioni ha invitato a diffidare della “voglia di comunità” (che è anche il titolo di un suo volumetto, edito in Italia da Laterza nel 2001) e del comunitarismo, perché rischiano di costituire solo una declinazione con parole diverse del concetto di nazionalismo, di piccola patria e di appartenenza etnica, e a fornire una risposta ambigua e falsamente rassicurante al diffuso bisogno di sicurezza. Per il grande sociologo polacco, scomparso un anno fa,  anche il concetto di comunità inclusiva” è una contraddizione in termini (si v. Modernità liquida, Ed. Laterza, 2006), perché , “Il desiderio di demonizzare gli altri nasce dalle incertezze ontologiche di chi è dentro”, specie quando il desiderio di comunità viene espresso sotto forma di rifiuto degli immigrati e degli altri estranei.

Anche per Bauman, tuttavia, “non possiamo fare a meno di sentire la mancanza della comunità perduta, ma la comunità di cui sentiamo la mancanza non può smettere di essere perduta”. Di certo, però, non può essere creata in maniera artificiosa, su ordinazione, e i tentativi di negare e sfidare tale impossibilità provocano nella sfera personale molta infelicità, e in quella politica anche molti inganni.

Occorre quindi puntare a formare comunità nelle quali sia possibile entrare e uscire liberamente, che abbiano alla base i diritti umani e un modello di convivenza fondato sull’impegno al dialogo continuo, con l’attribuzione a tale dialogo di un valore costituzionale. Comunità fondate sul riconoscimento della natura dialogica di ogni identità e, soprattutto, sulla condivisione: di linguaggi e storie diverse, cultura e tradizioni, oltre che di beni primari (come l’acqua, il suolo, l’aria, …).

C’è quindi bisogno di idee e parole chiare (più che di parole “chiave”) come di nuove forme di cittadinanza attiva e di prossimità (nel senso di farsi concretamente prossimi), senza le quali, specie a sinistra, si rischia di fare vuota retorica.

 

 

 

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