di Michele Nenna*

Siamo immersi in un continuo flusso di informazioni. Ci scambiamo dati, nozioni e pensieri ad una velocità che un tempo avrebbe fatto rabbrividire chiunque. Eppure, sottolineare con stupore la portata di questo processo appare anacronistico. Si rischia di essere collocati fuori dal mondo e fuori dal tempo, oppure, in gergo giornalistico, di non essere sul pezzo.

Oltre ad essere una società dell’informazione, la nostra è una società della comunicazione. Le informazioni a cui – volenti o nolenti – facciamo più riferimento durante l’arco della giornata vengono messe in circolo da noi stessi attraverso tutta una serie di interazioni che scegliamo di avviare. Ci capita di leggere un articolo interessante su un argomento altrettanto interessante? Bene, il passo dalla raccolta delle prime riflessioni alla condivisione tramite social è breve, se non istantanea. Così accade per un brano musicale, un’Ansa appena lanciata, un evento particolare della giornata. Tutto è condiviso e messo in circolazione ad una velocità sostenuta. Siamo gli autori diretti di un flusso comunicativo che riesce ormai a scavalcare ogni limite legato allo spazio in cui siamo collocati. Siamo attori principali e consapevoli del nostro click.

Questo processo, che oggi ci riguarda così da vicino, era già stato analizzato e definito dal filosofo francese Michel Foucault, durante il ’68 parigino e l’esplosione dei movimenti studenteschi. Il ruolo principale che, all’interno di un sistema più generale, assumeva la comunicazione, per Foucault era legato all’affermazione del concetto di biopolitica. Una politica che non è più esclusiva dimostrazione di un potere concentrato nelle mani dei capitalisti – o di pochi eletti – ma che diventa una realtà che coinvolge tutti, anche in modo indiretto. La comunicazione delle informazioni prodotte aumenta a dismisura, tanto da attrarre a sé l’intera sfera quotidiana di ogni singolo soggetto. Foucault illustrò questo scenario facendo un banale esempio legato al mondo del lavoro: timbrando il cartellino in fabbrica, il datore di lavoro sapeva benissimo dove fosse l’operaio in un certo momento dell’attività produttiva. Altri, dopo Foucault, riproposero la stessa chiave di lettura facendo riferimento al meccanismo del Telepass. Entriamo ed usciamo dai caselli autostradali lasciando informazioni importanti sulla nostra posizione.

La circolazione imperante di informazioni decreta la sana e robusta costituzione di una società. Nell’era delle fake news, delle geolocalizzazioni e delle chat di gruppo, non possiamo concederci di sorvolare sulle strategie comunicative odierne, di cui siamo il più delle volte oggetto  più che protagonisti. Quanto affermato da Foucault – in un epoca assai lontana dalla nostra – altro non è che la dimostrazione che la circolazione delle informazioni è così potente da condizionare le nostre stesse esistenze. La sua stessa idea di biopolitica è correlata a quella che egli non perse tempo a definire “etica del biopotere”, in quanto in grado di incidere particolarmente sulla quotidianità dei soggetti. Foucault non ha fatto in tempo a conoscere i social, eppure la sua idea abbraccia le fondamenta della materia prettamente comunicativa.

Per questo motivo, la necessità di una comunicazione politica degna di nota passa – o per lo meno dovrebbe passare – attraverso una ponderazione infinitesimale della questione che più ci tiene legati allo stare sul pezzo: il c.d. populismo.

Le cause principali della sua esplosione sono infatti molteplici,  ma quelle che più hanno ricevuto risonanza sono legate proprio alla comunicazione (basti pensare alle fake news durante la campagna elettorale trumpiana lanciate a colpi di tweet).

Non possiamo aspirare alla creazione di una buona società se sottovalutiamo l’aspetto comunicativo dell’attività politica che intendiamo svolgere. Perseverare nel mantenere un certo riserbo su tutto quello che accade all’interno di una sezione di partito come di un qualsiasi gruppo politico – al di là del colore di appartenenza –, a lungo andare mette a rischio la stessa riuscita di quella che potrebbe essere una buona pratica politica.

Da qui la necessità, oggi più che mai, di comunicare all’interno dei canali che più lo consentono – dalle piazze ai social – il messaggio elaborato all’interno di un’assemblea. Continuare a fare il contrario significa facilitare la diffusione di informazioni estremamente modificabili e incorrere nella pratica iper-diffusa della costruzione di fake news. E’ un lusso che in politica non ci si può più concedere.

Al populismo più becero bisogna porre rimedio, prima che la deriva diventi difficile da arginare. La politica, e tutti gli organi di informazioni degni di essere ritenuti tali, devono impegnarsi in questa lotta che spinge la verità oltre il dato reale. L’efficacia di una buona comunicazione la si deve rintracciare proprio nei luoghi adibiti al confronto.

In questi ultimi anni, ed in modo particolare nelle ultime tornate elettorali, abbiamo compreso quanto sia venuto meno il concetto di comunità. Ebbene, l’appartenenza stessa ad una determinata comunità la si alimenta solamente rendendo realmente partecipi i vari soggetti che la compongono. Se uno schieramento politico non riesce a comunicare efficacemente la propria forma mentis, è normale che perda la sua parte consistente di elettorato. Non abbiamo bisogno di una politica che fa di tutto per rimanere nascosta, tutt’altro. Occorre una politica che miri a rafforzare il concetto di appartenenza a determinati valori fondamentali della nostra società. Comunicare vuol dire includere, contrariamente a quanto si è fatto in molti salotti politici, anche in quest’ultimo periodo.

*Laureato in Scienze dell’Educazione, lavora nel campo della comunicazione

 

 

 

 

 

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